Che cos’è l’employer branding e perchè è importante
L’employer branding è un’espressione coniata negli anni ’90 e sviluppata soprattutto nella cultura imprenditoriale americana, in riferimento all’insieme di attività di marketing sviluppate da un’azienda e finalizzate a garantire un elevato valore del brand come luogo ideale di lavoro. Lo scopo è quello di attrarre i migliori talenti in circolazione, utili allo sviluppo del business e al raggiungimento dei propri obiettivi aziendali.
Ciò che viene pubblicizzato all’esterno è suddiviso in attributi tangibili (retribuzione, orari di lavoro, benefit, distanza da casa, ecc) e attributi intangibili o simbolici (prestigio, valenza per la propria carriera, ecc).
Questa parola è usata ma soprattutto abusata in quelle realtà aziendali che cercano di inseguire le nuove tendenze ma che spesso e volentieri resta vuota di contenuti. Siamo abituati, per deformazione professionale, a dare importanza e valore ai nostri clienti, ad analizzare in ogni minimo aspetto la loro soddisfazione, nella speranza di intercettare un bisogno da soddisfare pur di trattenerli tra le nostre fila. Passiamo ore ed ore, anzi intere carriere ad assecondare ogni volontà dei consumatori che sono diventati ormai i veri padroni delle nostre attività aziendali. Ecco che però dimentichiamo spesso e volentieri che coloro i quali davvero permettono a tutto l’ingranaggio di funzionare e di attrarre davvero i clienti sono, anzi siamo noi dipendenti.
Qualcosa però nell’aria sta cambiando ed esistono realtà che davvero prendono seriamente la missione dell’ employer branding, spinti dalla consapevolezza che il vero gap con la concorrenza lo crea il talento, la determinazione, ma soprattutto la felicità di coloro che ogni giorno siedono dietro le scrivanie della propria azienda.

Il mondo dell’industria creativa che crede nell’employer branding
Ma quali sono le aziende che credono maggiormente in quest’attività? Non siamo certo qui per stilare una sorta di lista, perché ahimè nel nostro mondo di amanti del marketing tutto è possibile tranne che dare risposte certe, ma vogliamo spiegarvi in cosa crede l’industria creativa che per prima sta aprendo all’employer branding.
In primo luogo il punto è il seguente: non solo rendere accattivante, stimolante e sfidante il tempo passato a lavoro ma permettere ai propri dipendenti di avere una vita al di fuori dello stesso. Non stiamo scherzando né polemizzando, ma semplicemente riportando la scelta di inclinazione presa dal settore.
Partiamo dal preambolo per cui nelle industrie creative la confusione e la distrazione, letteralmente e metaforicamente, sono spesso la scintilla per una vera ispirazione, ma anche la spinta a fare di più nel minor tempo possibile. Cosa che crea non solo un soffocamento dell’eccellenza creativa, ma anche l’allontanamento da una vita appagante al di fuori dei confini di una sala d’ufficio.
Anna Hickey, UK Managing Director alla Maxus, intervistata da Campaign Live, parla di una vera e propria spaccatura tra le agenzie creative, e nello specifico tra chi si sta muovendo realmente nella direzione di un maggior valore attribuito al brand come luogo di lavoro, e chi ne continua sempre e solo a parlare:
“Questo modo di lavorare è un implicito modo di non fidarsi abbastanza delle persone che fanno questo lavoro. Se vogliamo passare da essere fornitori a veri collaboratori per le aziende, dobbiamo avere le persone migliori che abbiano un’ampia e profonda comprensione del business, ma per fare ciò è necessario soprattutto che loro sentano la fiducia per poterlo fare.”
Questa cultura non è ancora la norma, magari lo fosse insomma.
Amelia Torode, Chief Strategy Officer in uscita alla TBWA di Londra ritiene che sia davvero molto triste anche solo il fatto che ci sia bisogno di avere una conversazione sul fatto che si può lavorare nell’advertising e contemporaneamente avere una vita:
“E ‘un atto d’accusa schiacciante della nostra industria. Questo è sempre stato un settore fatto di giornate di lavoro interminabili, scadenze impossibili e caos creativo, ma tutto ciò è bilanciato dal grande divertimento, lunghi e rilassanti pranzi, serate e da un pizzico di malizia. Troppo spesso mi colpisce sentire che il divertimento nel nostro settore sembra essere volato via, mentre sembrano tenere duro le lunghe ed estenuanti ore di lavoro.”
Neil Hughston, Founding Partner nell’agenzia creativa Duke, afferma invece che per molti anni la regola non scritta della pubblicità era quella nella quale si doveva sacrificare la propria vita per la carriera, un concetto davvero lontanissimo da qualsiasi aspetto di employer branding:
“Per un sacco di gente c’era questa mentalità da ‘petto battuto alla gorilla’, che si doveva lavorare 18 ore al giorno. Questa mentalità però è quella che porta l’individuo a perdere molti momenti importanti della propria vita extra lavorativa. L’industria soffre molto della sindrome del “troppo occupato” spiega Hughston. “C’è un sacco di gente che dice di essere molto occupata, ma a fare cosa? E ‘fin troppo facile scivolare in questo vortice.”
Jo Coombs, Chief Executive della OgilvyOne UK esprime il concetto più importante che è la causa, di fatto, del fallimento di ogni tentativo di instaurare una dottrina di employer branding e contemporaneamente la base dalla quale partire per generarlo: il pericolo è che a volte siamo così consumati da ciò che facciamo che è facile perdere la prospettiva, cosa che è così cruciale per il successo creativo.
“Se non siamo là fuori a vivere la nostra vita nel mondo reale, allora non possiamo fare il nostro lavoro nella creazione di comunicazioni che coinvolgono i consumatori. Quanto più siamo in grado di fare, vedere, leggere e di abbracciare, tanto più siamo in grado di apportare valore al nostro lavoro.”
Non ci possiamo allora stupire se moltissimi giovani oggi optano per delle piccole start-up Facebook oriented che fanno del lavoro destrutturato la loro forza. Questo perché permette loro di vivere il loro tempo fino in fondo e di avere una maggiore autonomia su come spendere il loro tempo libero.
Russ Schaller, Direttore Creativo di film presso lo Cheil Londra, crede, ed ha pienamente ragione, che i dipendenti più giovani non condividono quel vecchio senso di pressione tra pari per essere il primo, quella stessa pressione che portava i giovani di una volta a fare di tutto pur di vincere, compreso rinunciare al proprio tempo libero.
“I giovani non credono che sia cool essere gli ultimi ad uscire dall’ufficio, credono invece che sia da scemi. Sento che il vento del cambiamento è ormai alle porte. I giovani vedono il loro tempo e le esperienze fuori del lavoro come qualcosa di più prezioso, da non mettere mai in secondo piano. Non pensavo che fosse bello essere l’ultima persona ad uscire dall’ufficio.” afferma Russ Schaller.
Quando il più grande elemento di differenziazione del settore è la gente che lo compone, il fatto che esso non riesca a cambiare abbastanza velocemente o in maniera abbastanza significativa da attrarre i migliori talenti in circolazione è una questione importante e drammatica al tempo stesso.
“La crisi dei talenti sta accadendo ora. Ne siamo dentro completamente. E’ uno dei motivi per cui la flessibilità sul posto di lavoro dovrebbe essere avallata abbastanza velocemente. Il punto non è assecondare i Millennials, il punto è che la tecnologia stessa che sta permettendo al desiderio umano di vivere il modo migliore di primeggiare e di buttare via le vecchie e rigide regole con i loro metodi di lavoro che semplicemente non possono più tenere il passo. “ sostiene Coombs.
Cambiamento
Bisogna allora andare incontro al cambiamento, abbracciarlo e trarne spunti interessanti. Ogni azienda, ogni realtà lavorativa deve accettare e avallarlo, per riuscire ad attrarre il futuro, ovvero i nuovi talenti, che con la loro freschezza e con il loro modo destrutturato di vedere le cose, il mondo ed il lavoro, hanno la potenza di creare un nuovo mondo che non sarà affatto peggiore di quello attuale, bensì molto più dinamico e molto più vero, perché basato sulle relazioni, sulla diversità, sul tempo speso fuori dall’ufficio a fare vere esperienze e non dietro una scrivania a rammaricarsi di non avere tempo per vivere la propria esistenza. Fare employer branding oggi significa proprio entrare in questo ordine di idee e permettere al futuro di diventare presente.
Vi lasciamo con il video del brand che secondo noi ha compreso prima degli altri il valore dell’employer branding: Google!